Descrizione
Il fascicolo si apre con un articolo di Marco Cesa che ricostruisce il contributo offerto agli studi internazionali da uno dei più influenti studiosi di Relazioni internazionali del secondo Novecento, Kenneth Waltz. Seguono due ricerche: la prima, di Antonino Castaldo e Alessandra Pinna, esamina il caso della Serbia, un paese che sta affrontando una difficile fase di democratizzazione, indagando i precedenti storici che possono aiutare a comprendere i problemi del presente; il secondo, di Marco Damiani e Francesca Piselli, utilizza innovative tecniche di analisi del contenuto per studiare il discorso politico del leader della sinistra radicale francese, Jean-Luc Mélenchon.
La seconda parte del fascicolo ospita una discussione del recente importante volume di Angelo Panebianco, Persone e mondi (Il Mulino, 2018). Vi partecipano alcuni studiosi portatori di competenze diverse, tutte indispensabili per un’adeguata valutazione del testo di uno dei più importanti scienziati politici italiani: Filippo Barbera, sociologo dell’Università di Torino, Matteo Bianchin, filosofo dell’Università di Milano Bicocca, Maurizio Ferrera e Gianluca Pozzoni, politologi dell’Università di Milano, e infine Andrea Ruggeri, studioso di Relazioni internazionali dell’Università di Oxford. Conclude il fascicolo lo stesso Panebianco, che svolge alcune considerazioni sui commenti ricevuti.
IN QUESTO NUMERO:
SAGGI
Marco Cesa, Kenneth N. Waltz in International Political Theory and Security Studies
Introduction
Kenneth N. Waltz (1924-2013) was the most influential international political theorist of the past forty years. His work defined the contemporary Realist approach to the study on international politics and ranged from the identification of different levels of analysis in international theory to the study of crucial issues of international political economy, from the creation of a general theory of international politics to the evaluation of the thorny questions of nuclear deterrence and proliferation. A number of scholars have taken up and developed his views; many others have rejected them and, in doing so, have been forced to think along new lines. It is no exaggeration to argue that much of what has been done in international political theory since the 1970s can be interpreted as an attempt to build upon Waltz’s contribution or, conversely, to put forward something completely different from what he had done. In addition, his work framed scholarship in other important ways in the previous two decades too. No other figure has played such a central role in the field of international relations over so long a period of time. And, looking ahead twenty or thirty years from now, it is very likely that Waltz will be one of the few scholars of the second half of the 20th century who will still be read.
A veteran of the Second World War and the Korean War, Waltz received a B.A. from Oberlin College (majoring in Economics) in 1948 and a Ph.D. in Political Science from Columbia University in 1954. He taught first at Columbia, then at Swarthmore College (1957-66), Brandeis University (1966-71) and the University of California at Berkeley (1971-97). After retiring, he moved back to Columbia, where he served as an Adjunct Professor and was a Senior Research Scholar at the Arnold A. Saltzman Institute of War and Peace Studies until his death. He was Fellow of the American Academy of Arts and Sciences, President of the American Political Science Association (1987-88), and received the Heinz Eulau Award for Best Article in the American Political Science Review during 1990, the James Madison Award for distinguished scholarly contribution from the American Political Science Association in 1999 and the Distinguished Scholar Award in International Security Studies from the International Studies Association in 2010.
In what follows, I will briefly present Waltz’s major accomplishments in the theory of international relations and the subfield of security studies and touch upon some of the debates that his work triggered.
RICERCHE
Antonino Castaldo e Alessandra Pinna, Eredità dei regimi ibridi e qualità democratica: il caso della Serbia
Introduzione
A partire dalle confining conditions di Kirchheimer l’impatto delle ‘eredità autoritarie’ sulle successive democratizzazioni è stato ampiamente analizzato, con riferimento ad ogni tipo di regime non-democratico. Tuttavia, scarsa attenzione è stata dedicata ai regimi ibridi, nonostante la crescente rilevanza di questo fenomeno nelle ultime decadi. A causa della mancanza di consenso riguardo alle caratteristiche distintive di questo tipo di regimi, si concentrerà qui l’attenzione esclusivamente sul modello di Autoritarismo Competitivo (AC) elaborato da Levitsky e Way (L&W) il quale risulta ben strutturato dal punto di vista teorico e rilevante in termini di casi analizzati e nuovi casi emersi negli ultimi anni. Secondo gli autori, «[c]ompetitive authoritarian regimes are civilian regimes in which formal democratic institutions exist and are widely viewed as the primary means of gaining power, but in which incumbents’ abuse of the state places them at a significant advantage vis-à-vis their opponents». Nella loro analisi, L&W dimostrano come nel 2008 15 dei 35 casi analizzati si fossero democratizzati. Tuttavia, in nessuno di questi è emersa una democrazia di qualità (Fig. 1). È ipotizzabile che a questo risultato abbiano contribuito in maniera considerevole le eredità degli AC? Più in generale, che tipo di impatto hanno queste eredità sulla qualità delle successive democrazie? Quali fattori possono contribuire a spiegare l’intensità di questo impatto?
L&W affrontano il tema delle eredità degli AC introducendo la distinzione tra transizioni di tipo ‘rotten-door’ e ‘hard-door’. Nelle prime, la debolezza del regime, intesa in termini di basso potere organizzativo, favorirebbe il passaggio di eredità forti, le quali porterebbero all’emergere di un nuovo AC. Nelle seconde, un regime provvisto di elevato potere organizzativo limiterebbe il passaggio di eredità forti, favorendo l’emergere di una democrazia. Come si sosterrà più avanti, questa ipotesi appare riduttiva e per certi aspetti fuorviante. Sulla base della letteratura sulle eredità autoritarie, si propone un’ipotesi alternativa, la quale prevede che anche nelle transizioni ‘hard-door’ le eredità degli AC possano giocare un ruolo importante, in particolare favorendo l’emergere di democrazie di bassa qualità.
Allo scopo di testare questa ipotesi si procederà all’analisi del caso serbo, il quale in base al modello di L&W dovrebbe essere tra quelli meno influenzati dalle eredità dell’AC: il regime serbo, infatti, era caratterizzato da un elevato potere organizzativo ed ha subito una transizione di tipo ‘hard-door’; inoltre, è stato oggetto di una forte e costante condizionalità europea e ha mostrato un elevato livello di ‘linkage to the west’. Se le eredità dell’AC e la loro influenza sulla qualità democratica possono essere rintracciate nel caso della Serbia, allora sarà probabile che queste assumano un ruolo importante anche negli altri casi ed in paesi meno influenzati dalla dimensione internazionale. Infine, il caso serbo assume particolare rilevanza a causa di recenti sviluppi che segnalano il possibile riemergere di tratti tipici dell’AC in concomitanza con le vittorie elettorali dei partiti eredi del vecchio regime.
Marco Damiani e Francesca Piselli, Jean-Luc Mélenchon (2012-2017), dalla sinistra al popolo. Linguaggio politico e modelli di leadership in trasformazione
1. Introduzione
Questo articolo si pone come obiettivo lo studio della trasformazione del modello di leadership operata da Jean-Luc Mélenchon (JLM) nel corso degli ultimi anni. Il riferimento diacronico preso in esame coincide con le elezioni presidenziali del 2012 e del 2017. In questi diversi momenti storici, registriamo, infatti, due operazioni molto importanti per la storia della gauche francese, entrambe condotte sotto la guida di Mélenchon. In ordine cronologico, la prima è quella che porta alla fondazione del Front de gauche (FdG), rassemblement della sinistra radicale, collocato a sinistra del Partito socialista. In quella occasione, JLM guadagna una notevole visibilità alle elezioni presidenziali del 2012, costruendo le condizioni necessarie per occupare un rinnovato spazio di agibilità politica in nome e per conto dello schieramento della new left francese. Fallito il tentativo iniziale, per i cui approfondimenti rinviamo alle pagine seguenti, il secondo esperimento è quello di France insoumise (in italiano: “Francia ribelle”, o “Francia indomita”), che colloca Mélenchon al centro delle cronache politiche nazionali e internazionali in occasione delle elezioni presidenziali del 2017. In quest’ultima circostanza, JLM ottiene un buon risultato, sfiorando addirittura il secondo turno di ballottaggio.
Dato quanto premesso, incentriamo la nostra riflessione sull’analisi dei cambiamenti registrati durante le due esperienze politiche. Se nel 2012 Mélenchon si rivolge al popolo di sinistra, riunito attorno a un cartello elettorale che comprende formazioni politiche ispirate alla tradizione socialista, comunista, ambientalista, femminista e pacifista, nel 2017 JLM dà vita a un laboratorio politico del tutto originale, il cui target di riferimento non è più costituito soltanto dagli elettori della sinistra tradizionale e tantomeno dalla sola classe dei lavoratori francesi. Rispetto al Front de gauche, France insoumise (FI) ha l’ambizione di rivolgersi a tutto il popolo e, in particolare, alle persone costrette a subire gli esiti negativi della crisi economica e finanziaria dei primi anni Duemila, di cui Mélenchon attribuisce le colpe e la responsabilità politica alle scelte adottate dalle classi dirigenti in carica.
L’ipotesi da cui muove questo lavoro di ricerca è che il progetto di Mélenchon subisca, dal FdG a FI, una profonda trasformazione politica, capace di condurre il leader francese verso una direzione del tutto originale, con riferimento alla quale non è più la “classe” marxianamente intesa, o ciò che resta di essa, a riformulare le istanze di egemonia politica necessarie al perseguimento di un rinnovato progetto politico. In France insoumise è tutto il “popolo” francese e non solo una parte di esso ad essere individuato come il protagonista del cambiamento e come il potenziale soggetto collettivo a cui il leader si rivolge per conseguire i propri obiettivi politici.
Mossi dall’idea che «le convinzioni, le ideologie che fondano una posizione politica si oggettivano in un linguaggio», abbiamo imperniato questo lavoro sullo studio dell’elemento linguistico, ponendo particolare attenzione alle parole pronunciate da Mélenchon nelle campagne elettorali organizzate in occasione delle presidenziali del 2012 e del 2017. In particolare, la scelta di mettere il linguaggio al centro della ricerca si fonda su due assunti fondamentali. Il primo è che «la parola, in politica, è sempre un segno al quadrato», capace di significare molto più di quello che denota e ciò è ancora più vero per i discorsi di campagna elettorale quando le parole devono tradursi in voti. Come sosteneva Ernesto Laclau, in politica le parole costituiscono «un complesso di elementi in cui le relazioni giocano un ruolo costitutivo». Il che significa, in ottica costruttivista, che il linguaggio politico è parte integrante della formazione del progetto. Studiare il linguaggio significa analizzare la configurazione politica del progetto stesso, in modo da rilevarne le principali caratteristiche strutturali. In secondo luogo, la comparazione tra le due diverse esperienze politico-elettorali (quella del Front de gauche e quella di France insoumise), con riferimento a determinati campi lessicali, alla loro introduzione e/o eliminazione e alle differenze di vocabolario riscontrate tra il 2012 e il 2017 rappresentano un indicatore capace di rilevare le trasformazioni in corso. È per questo motivo che abbiamo deciso di strutturare la nostra ricerca su un corpus di discorsi elettorali pronunciati da Mélenchon, meglio descritti nelle pagine che seguono.
EPISTEMOLOGIA, METODOLOGIA E POLITICA INTERNAZIONALE: UNA DISCUSSIONE SU PERSONE E MONDI DI ANGELO PANEBIANCO
Presentazione
La pubblicazione di Persone e mondi di Angelo Panebianco (Bologna, Il Mulino, 2018) offre lo spunto per la discussione dei principali temi affrontati nel libro. Gli studiosi che hanno accettato di parteciparvi sono portatori di competenze diverse: di natura epistemologica e metodologica, di teoria politica, e di teoria e ricerca nel campo delle relazioni internazionali, giacché il denso volume di Panebianco solleva quesiti pertinenti a tutti questi ambiti disciplinari.
La Rivista è grata ai colleghi che hanno prestato la loro collaborazione all’iniziativa, e ad Angelo Panebianco che ne ha creato l’occasione, e vi ha contribuito a sua volta tornando sui temi affrontati nel suo volume e suggeriti dal dibattito.
Filippo Barbera, Causalità, potere e contesti. Considerazioni a margine di Persone e mondi
Matteo Bianchin, Individualismo e meccanismi. Commento a Angelo Panebianco
Maurizio Ferrera e Gianluca Pozzoni, Oltre la microfondazione. Esiste una “terza via”?
Andrea Ruggeri, Molte persone e tanti mondi per studiare le Relazioni Internazionali
Angelo Panebianco, Considerazioni a margine dei commenti
Summaries/Riassunti